Canto paradossale di Ulisse alla Sirene

 

Se mai ti ritrovassi,

Ingannevole Leucosia,

Al fondo di impetuosi ricordi

E di nuovi percorsi,

Slegato dall’albero maestro,

Io verrei da te.

Se mai potessi tornare,

Libero dai lacci del passato,

Sui mari della mia vita

E del perduto esistere

Risponderei al tuo canto

Con nuovi fremiti e nuova intelligenza.

Quali impossibili attimi

O nuovi improvvisi destini,

Quale morte o quale vita,

Quale passione per l’impulso,

Cosa avrei trattenuto, dunque,

Per la mia avida conoscenza

Se non mi avessero costretto

Le corde di una segnata morale?

Non fu così… e dunque vivo.

Ma  se non fosse questa la vita

Il destino e  il compimento

Del mio provato tormento ?

Se io avessi lasciato a te

L’ansia dell’irragionevole

E portato con me  

La paura dell’ignoto?

Non sono nato per esser solo.

Soltanto di questo avrò paura,

Non della tua voce

Ma di destini vuoti e di inutili ricordi

Dove mai potrei fermarmi.

    Le sirene sembra fossero figlie della musa Calliope e per questo abilissime nel canto. Abitualmente vengono ricordate come vergini bellissime per metà donne e per metà pesci. In origine, tuttavia,  sembra fossero dotate di ali -quindi per metà donne e per metà uccelli-  perse quale castigo per aver sfidato in una gara di canto le Muse ed esserne poi state battute. Sembra fossero due. Altri ne descrivono quattro oppure tre: Pisinoe, Aglaope e Telsiope, conosciute anche coi nomi di Partenope (che si narra sepolta vicino alla città di Napoli, detta quindi città partenopea) Leucosia e Ligia. Secondo la leggenda esse avevano il potere di attirare a se e farlo naufragare, per poi divorarlo, chiunque, passando nei pressi del loro scoglio, le udisse cantare.

    Omero parla delle sirene nell’Odissea per il famoso episodio che coinvolse Ulisse che, nel corso del suo travagliato ritorno dalla guerra di Troia, dovette passare nei pressi del loro scoglio.  Preavvertito del pericolo mortale da Circe chiuse con della cera le orecchie dei suoi marinai e si fece legare solidamente all’albero maestro della nave con l’ordine di non essere mai slegato. Così avvenne. Le corde resistettero e i marinai, che non udirono il canto ammaliatore, non slegarono Ulisse salvandosi.  Ulisse si fece legare ma non si chiuse le orecchie con la stessa cera. Ciò per poter udire, unico sulla nave, il mitico canto. Simbolica espressione di curiosità e di raziocinio. Di tutti i personaggi che il mito e la letteratura hanno tramandato alla nostra memoria Ulisse  è forse il più rappresentativo e il più carico di simbolismi esistenziali così penetranti che la sua figura è forse una delle più interpretate e adattate al vivere moderno di qualsiasi epoca. Egli appare in ogni caso come l’uomo affascinato dall’ignoto per definizione e davvero tante sono le versioni del suo destino oltre a quanto tramandatoci da Omero. Di tutte però quella Dantesca è quella con cui, più di ogni altra, ho amato confrontarmi. Ho condiviso la visione dell’uomo pervaso dalla curiosità come irrefrenabile impulso a nuove esperienze e nuove acquisizioni personali anche a costo della vita.

E’ per questo che mi sono ritrovato a considerare un Ulisse afflitto da una solitudine insopportabile, che guarda al suo passato con occhi non solo nostalgici ma rosi dal rimorso di non aver placato fino in fondo la sua fame di conoscenza. Eccolo quindi che, solo, si rivolge idealmente proprio alle Sirene ed in particolare ad una di loro, chiamandola per nome, pervaso dal dubbio di cosa mai sarebbe successo se non avesse chiesto ai suoi compagni di legarlo e fosse andato da loro. Questo dubbio lo porta a chiedersi quali destini, quale tipo di morte o forse quale tipo di nuova vita avrebbe conosciuto. Si ripromette di farlo, se ne avrà occasione, pur sapendo che forse non accadrà. Il suo canto è quello che Egli rivolge, paradossalmente, proprio alle sirene e che esprime il rammarico profondo per non aver saputo affrontare ciò che da un lato lo avrebbe forse portato a morte, ma dall’altro gli avrebbe dato l’ebbrezza di  nuove esperienze di vita. Non un canto alla morte ma un canto ad una vita diversa anche a rischio della morte. Da qui la sua riflessione su nuove partenze poiché la solitudine e l’inattività sono le uniche cose di cui egli sente una invincibile paura e non fanno parte di lui. Quello che porto nel cuore è un Ulisse semplice, che vive i suoi sensi di colpa e i suoi sogni e che umanamente si ripropone un diverso comportamento se mai il destino gli concedesse una seconda occasione, ma che in questa sua riflessione ritrova se stesso, la sua usuale forza e dignità, la sua passione e la spinta a nuove partenze. Un uomo che teme la solitudine più dello stesso canto mortale delle sirene. Egli si guarda indietro e richiama a sé le emozioni e la forza di un tempo, le passioni dell’intelligenza. Sogna e concretizza il sogno di partire verso le proprie Colonne d’Ercole ove, sempre secondo la versione di Dante, trovò poi la dignità umana e la morte.


Le Colonne d’Ercole